Andrea Panzini Emersberger |
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Andrea Panzini ha pronto per la pubblicazione un nuovo volume di poesie; pubblichiamo volentieri la bellissima prefazione all'opera, che porta la firma di Terenzio Montesi. A presto per nuove notizie sulla pubblicazione del volume.
Nel già complesso e variegato scacchiere linguistico delle Marche plurali il Vernacolo Anconitano è l’espressione di una fiera autonomia anche se molti accenti sono stati acquisiti con prestiti da genti dell’altra sponda adriatica con attivi scambi di merci e cultura, per contatti ravvicinati e forti affinità sentimentali. Le forme lessicali, formatesi nei remoti linguaggi, hanno fortemente risentito delle molteplici informazioni provenienti dall’area di influenza commerciale e politica anche se molte parole sono ormai scomparse per lo scarso utilizzo e per l’allontanamento dalla fonte originaria. Ricercare la parola perduta e reinserirla in un contesto letterario vuol dire restituire alla stessa una dignità risarcitoria.
“ Fiézze de màgi, de cèghe le trézze ‘ntra mòre e màri de pòrti ch’è nòvi. Stéle se gràmpa, lampàre che slàmpa. Zzàmpa che sfrìgia è ’l garbì’ che sbìgia. “
Il lavoro di ricerca, paziente e profondo, che Andrea Panzini Emersberger ha portato avanti con l’entusiasmo della gioventù e con il rigore dello studioso, si manifesta nella impaginatura della silloge poetica che spesso tocca i registri della commozione con contenuti inattesi e con vibrante musicalità sullo sfondo di una geografia acquisita come irrinunciabile fondale, elemento mitologico prima che visione panoramica e comunque oltre la storia.
“…ce stà, dòpu la Véla, ‘sta gràn’ spiàgia Cu’ i bréci e i còchi tondi fratazzàti Ch’el Monte s’è ‘braciàta: è mosca è giàgia
E pàr’ che spèta j sbìgi un po’ sdelmàti De qù’i cucàli mànsuli a filàndu, A fàndu ‘sti vulàtili le guàite
A ‘n bèl’ parégiu de fiori a lilàndu…”
La godibilità della lettura sta anche nell’intreccio di questi coefficienti di natura sentimentale che volano sopra le espressioni di tanti che fanno rimare a forza parole messe in colonna con temerarie invasioni di campo. L’Autore ha avuto l’ardimento di ricercarle per rifondarle non tanto per dimostrare evidenti capacità, cioè per stupire e compiacere il lettore, quanto per provare a se stesso che la ricerca è possibile e può fornire stupefacenti aperture e sorprese. Il Vernacolo Anconitano, purtroppo, non ha resistito agli sradicamenti e alle ingiurie delle devastazioni, volgendo alle più degradate omologazioni anche le dinamiche dei comportamenti. L’Autore proietta la risorsa della sua Poesia in epoche immemorabili con l’intento di conservare l’autenticità di una identità urbana ormai compromessa, tanto che ravvisa l’urgenza di dotare il Vernacolo di un testo in Lingua quasi a scusarsi per l’incomprensibilità di alcuni termini: la parlata di casa è diventata forestiera! “Me s’è mignàtu bè’ qù’l ròsa lùscu De quànt’el Zzole frìge a l’urizonte E da già smìcia ‘n alòcu balùscu…”
“Mi si è dipinto ben’ quel roseo tramonto Di quando il Sole frigge all’orizzonte Ed uno strabico allocco che scruta…”
E’ questa la lingua madre di cui l’Autore si alimenta e con cui cresce. Ed è lo stesso Poeta a rigenerare un idioma praticato da chi occupa enclaves fuori da ogni catalogo geografico o da chi è sopravvissuto a ogni sfacelo mantenendo una stentata vitalità in un uso fossilizzato. Non è facile assegnare una matrice codificata a questo lessico che egli manovra con sicurezza e felicità. Certo è che molte parole che la silloge contiene, (custodisce), indicano quasi una estraneità di Ancona di fronte ai mutamenti linguistici, come fosse un’isola nel continente centro-italico. Le sue sonore parole non appartengono al repertorio etrusco-gallico né osco-sannitico; sono calchi di modelli medioevali, quando Ancona poteva permettersi anche l’autonomia linguistica. Sarà attutito il suono, molto flebile l’eco della voce ma lo strumento vernacolare ha la valenza di un documento espressionistico senza essere un “cimitero di parole” tanto è vero che gli viene affidato un gran catalogo di sentimenti e di emozioni. Arnese per la Poesia. L’appassionata operazione di ripescaggio sostiene vigorosamente il canto lirico che l’Autore talvolta camuffa ma che poi irrompe con una folata di sapori, musica, profumi di mare.
Né bisogna badare alle trasgressioni dei primi quattro componimenti pronti alla decifrazione del titolo del libro (“Da j òssi d’i cujoni”) per l’orientamento omosessuale che timbra l’intera silloge poiché il vero protagonista del racconto è il gioioso, spensierato, amoroso andirivieni di giorni nell’affascinante teatro di Portonovo verso una vitalistica affermazione del proprio ego: complice di ogni scorribanda il monte dei corbezzoli che incombe e protegge: il Cònero.
“’Na fùliga smiciàta a Mezavàle Qù’i grépi rusciolàti e còti al Zzole, Le moje de lavànde a pìnge u’ sciàle, El dolciu disgradà’ dal Monte al còle,
E j strùfi a l’urizonte de le véle…”
Versi che restituiscono atmosfere, che incontrano amori e sortilegi. Ogni verso una emozione, una inquadratura che gioca a rimpiattino, perché il Poeta non è mai solo, fino allo sfinimento, fino a che il Sole va a finire la sua corsa oltre la barriera del Trave. E’ allora che l’ultima luce del giorno si spegne e man mano sopraggiunge la ridda degli interrogativi che non concludono però le prove e i tentativi coltivati per avere risposte. Questo lavoro di Andrea ha la forma di un arco, anzi, di un arcobaleno. L’inizio esibito e compiaciuto, crudo e irridente, lascia la traiettoria a una romantica esplorazione di quella fascia magica che gli fa da teatro tra monte, sassi e mare. I racconti che il Poeta sussurra e grida diventano ad ogni passo più distesi e meno interessati all’ego. “Eden” basterebbe a definirlo Pensatore e poi Poeta, ma va letta più volte e, ad ogni battuta, chiudere libro e occhi e pensare, per suo espresso comandamento. Lo stesso obbligo è per “La Vela”, terragna e marina, avvolta dagli odori della ginestra e della lavanda, con il commento dei gridìi dei gabbiani che fanno concerto volando. Gli endecasillabi avanzano sospinti dalla sensualità del momento e dai mutamenti del mare, da Mezzavalle ai Sassi Neri, contando gli scogli, in piena luce e nei pleniluni.
“Bùla ‘na mùchia ‘sta cùpa de Véla, Cùme ‘na spiàgia fòssile de fòri Del tempo e fòr’ de e’ spàziu…’na papèla ‘rtrovàta drént’ a ‘n bréciu da ‘sti fiori…”
E’ il paesaggio della favola, del perduto, con l’incalzante presenza amorosa che dà il via ad ogni impresa. Eros si è accasato sul Cònero. La musicalità è una spontanea dominante, non ha bisogno di testimoni e non vengono avvertite le intrusioni, anche perché l’Autore definisce egocentrico il contenuto della sua ricerca. Ecco il prezioso “catalogo” compilato con infinita passione che diventa un punto fermo in questo lavoro che in tanti hanno cercato di sondare per arrendersi nel mare delle incertezze. Egli è riuscito a rifondare la struttura portante dell’antica parlata di Ancona. La riappropriazione di un lessico perduto, mandato al confino, non è esibito per vaghezza di studioso ma per un utilizzo originale con l’intento di dare alla Poesia risonanze di impensate suggestioni. Segue così una scrittura evocativa che veste di grande fascino l’opera poetica. Solo la Poesia poteva sollevare oltre la coltre di polvere un corpus archeologico-culturale che è appartenuto a questa nostra società.
L’opera di scavo è addolcita da un eros fanciullesco, benevolo e ammiccante, mutevole come il percorso dell’onda marina che si rifrange sui sassi. Di giorno e più ancora di notte complice l’amabile Luna:
“Drént’ a ‘na cùpa lùciga de stéle”
Un verso di “Eden” che sostiene il dialogo tra terra e cielo, un dialogo lungo, quanto lunghi sono i ricordi di Portonovo, infiniti.
“ce sému stramigiàti su le drìte E scartuzzàte rìpe su l’altùre Framez’ a i paccasàssi…
‘mprecòsa ‘ntra l’erbàce e le radùre Rumàniga ‘na piève, a lì, luntàna, Smiciàva ‘ntra le mòre el cèle el màre”
La scrittura di Andrea si addolcisce. I ricordi sono la terapia giusta per la condizione privilegiata dell’esule, obbligandolo a selezionare l’inventario delle riminiscenze trattate ormai con leggerezza e libertà, senza nulla concedere al tranello delle romanticherie.
“T’arcòrdi qù’la Cèga lùja, bàmbi? Era ‘n piumì’ ligéru la banàna De qù’la Lùna che balàva i màmbi”
La Luna di luglio che ballava i mambi! La Poesia viaggia così, alta, senza riferimenti alle cattedre dei maestri autoreferenziali che, numerosi, assediano e presidiano le confraternite della Poesia Vernacolare. Andrea Panzini Emersberger è un fuori schema, irripetibile, visionario della ricerca lessicale dove la parola sorregge una innata vocazione lirica. Quasi un’appendice che vale da commiato del Poeta-filosofo appare, a chiusura, una sorprendente Onirica Trilogia nei tre tempi “Ballata delle catastrofi”, “Invettiva dei fiori di rosa”, “Ballata del Maggio”, tre segmenti di largo respiro in cui vanno in dissolvenza Sole e mare, scogli e Luna, giochi e amori per immergersi nel gran mercato dei giorni, vociante e rabbioso dove è in atto l’agguato dei ladri e delle streghe. Chiari sono i rimandi alla rivolta rimbaudiana e alla rivoluzione pasoliniana, che il Poeta fa sue modellandole sulla musica dei versi di denuncia dell’intolleranza nei confronti del mondo gay.
“Cùme disgràda el Zzole su le sére Sbiadìte e smòrce longu i lituràli De ’stu stivalefràjdu de galère…”
E quasi a intorpidire le acque chiarissime del pensiero il Poeta passa il rude verso sui sassi del fondo. Per consolarsi e per dire chi è, (o chi era).
“…se sfiora ancora ’l Còneru a cinìgia. Su l’antimàma colcu Andrea Panzini Se fa lundà’ da j spèrmi…e schiàta…e stìgia”
Terenzio Montesi
Andrea Panzini è contattabile al n. 340 3269654 oppure alla mail andrea_panzini@yahoo.it
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