Sprufumo de Londra... anzi, pèsta!

(cume campa 'n ancunetano senza le concule)

a cura de Lisà (al zzeculo Alex Acuroni)

 

© Alessandro Accoroni & AnconaNostra


Cunfessiunale:

- Cunfessiunale: Lisà se presenta (in itagliano) –

1. Quando la posta non arriva        2. La luna nel pozzo

Mandati a genaio del 2005, ma m'ero scurdato!!!

 

Cari lettori,

i due contributi che seguono, "Quando la posta non arriva", e "La Luna nel pozzo", sono nati in momenti diversi. Pertanto, possono apparire come disgiunti e confusi, perche' non offrono fili logici continuati organicamente. Per dare una chiave di lettura, direi che il primo offre forse il contesto della mia esperienza in Inghilterra, con alcune riflessioni. Il secondo sviluppa sia un raccordo e una spiegazione della genesi del primo, sia una riflessione piu' articolata della mia esperienza personale. Vi prego pertanto di leggere questi lavori come impressioni distinte, ma parte dello stesso discorso sul campo a me caro della psicologia clinica. Mi scuso di alcune ripetizioni, che spero non rendano la lettura troppo pesante.

A.A.

 


Quando la posta non arriva

 

Venni a vivere in Inghilterra nove anni fa. Avevo finito gli esami del defunto ordinamento quadriennale (di cui ero comunque fuori corso), e avevo deciso di studiare e scrivere la tesi a Londra. C'era anche un motivo personale; ma la mia tesi si affidava comunque a letteratura quasi esclusivamente anglosassone, che in Italia, in un'epoca in cui Internet non esiteva ancora, chissà quando avrei trovato, o ricevuto tramite l'inaffidabile posta, che a volte mi recapitava le lettere dei miei amici inglesi in due giorni, e a volte in due settimane.

Ero già stato in America per sei mesi, e avendo anche tradotto un libro di Psicologia Sociale in italiano dall'inglese, il mio inglese, parlato e scritto, era buono. Ci vollero quasi due anni per finire la tesi e laurearmi in Psicologia, indirizzo applicativo, un terso mattino di Aprile, nel '92, a Padova. Il Prof. Marhaba – l'unico relatore di questa galassia che volle sia accettare una tesi assai strampalata, sia ricevere le bozze per posta, a intervalli di mesi – mi disse di non farmi illusioni: gente con tesi fuori dal comune ce ne era già molta, centodiecielodi pure, ma pubblicazioni e carriere non si basavano sulla bontà delle idee e del sapere. Nell'euforia condita dell'alloro di quei giorni lo ascoltai, ma non gli credetti. La mia tesi, quella figlia bellissima cui avevo dato il meglio di me, si sarebbe fatta strada da sola, e io l'avrei seguita nella gloria.

Di li' a poco partecipai – anche se vivevo ancora a Londra – ad un concorso per un Dottorato in Psicologia Sociale all' Università di Padova. Presi il massimo voto allo scritto, l'orale era solo un breve colloquio a carattere personale ed informale. Forse per quella fiducia cieca di quando si crede ancora a Babbo Natale, e sotto la barba scopriamo invece nostro padre, lo sgomento e la rabbia di vedere il mio nome classificato quarto, ed escluso dai tre posti disponibili, furono enormi. Ad un solo punto di distanza dal terzo, e i primi tre del podio erano arrivati ben dopo di me nelle qualificazioni degli scritti… il senso di rabbia genuina fu grande, l'accettare la realtà amaro, e volsi le spalle alla possibilità di guadagnarmi da vivere come psicologo in Italia come passando da un'amante all'altra, quando si scopre che questa ci è stata infedele. L'amore resta, ma sa di fiele.

Per diventare psicologo clinico in Inghilterra bisogna fare concorsi per i circa 250 posti disponibili per un dottorato in psicologia clinica, fra i vari istituti universitari nel paese che offrono questo post-graduate degree. Il corso di formazione è triennale. Per partecipare occorrono due requisisti: essersi laureati in psicologia in Inghilterra, in Università riconosciute dalla British Psychological Society (BPS), o, se laureati all'estero, presentare la propria laurea allo scrutinio della BPS. Inoltre, come straniero, dimostrare un alto grado di conoscenza della inglese, passando il Cambridge Proficiency Test con il voto piu' alto ("A"; con "B" non si è ammessi). L'altro requisito è dimostrare esperienza lavorativa, retribuita o volontaria, con popolazioni cliniche (malati mentali, handicappati, anziani, drogati, etc.). Trovai lavoro (retribuito) in una residential home for families where the parents have a drug or alcohol problem (che corrisponde pressapoco ad una casa-famiglia per genitori che hanno problemi di droga e alcool, e i loro figli), nel tardo 1992. Fra il 1992 e il 1995 – quando fui in grado di mandare la domanda per quattro corsi per un dottorato in psicologia clinica – ci furono anni di lavoro duro. Con esso, la frustrazione dell' offrire ai miei clienti un servizio (dal punto di vista psicologico) assai piu' ricco e terapeutico di quello dato da non psicologi nello stesso ambiente di lavoro, senza il corrispettivo economico adeguato. Ma anche alcune soddisfazioni e riconoscimenti: clienti che miglioravano e diventavano genitori piu' attenti, lunghi assessment reports che andavano di fronte ad avvocati e assistenti sociali e Tribunali dei Minori, e ricevevano buona considerazione. Feci anche alcuni corsi di perfezionamento, imparando una buona dose di terapie cognitivo-comportamentali.

Nell'autunno del 1993 feci l'esame per il Cambridge Proficiency Test. Qualche mese dopo, la posta recapito' il risultato: con mani tremanti aprii un plico grigio: A !!! Potevo cominciare le pratiche per sottoporre la mia laurea al vaglio della BPS. 

Nel '95 cambiai lavoro, e divenni un Drug and HIV Worker in un Community Drug Team. Non so quale struttura sanitaria corrisponda in Italia, ma era una clinica del metadone, all'incirca, anche se il metadone non veniva dispensato in loco. Venivano offerti molti servizi: uno psichiatra, shiatzu, agopuntura, gruppi di discussione, aiuto legale e assistenza sociale, e appuntamenti di counselling individuale con i clienti. Allocati a me erano una trentina, fra questi sette HIV positivi, di cui due italiani e due spagnoli. Ero responsabile della stampa e della distribuzione delle ricette mediche del metadone e altre medicine (ad esempio, il Valium, o in alcuni casi perfino Dexedrine, amfetamina). Questo secondo il principio noto come harm minimisation, secondo cui se si forniscono legalmente le droghe abusate, si riduce il danno procurato dall'aspetto illegale dell'uso della droga.

Nel frattempo, la BPS valutava la mia domanda di ammissione alla loro società, avendo ricevuto la mia lettera con la traduzione dell'estratto con tutti i miei esami, e le mie referenze, una delle quali dal Prof. Marhaba.

Atto primo: Caro Signor Accoroni, la sua laurea sembra adeguata ed allo stesso livello dei corsi universitari offerti in Inghilterra approvati dalla BPS, ma dalla traduzione dei suoi esami non siamo sicuri di capire che lei abbia seguito lezioni e corsi sulla psicologia cognitiva: ci puo' fornire prove concrete su che cosa ha imparato nel corso Psicologia Generale ?

Tornai in Italia, trascrissi i nomi dei testi e le lezioni seguite, e mandai alla BPS perfino i miei quaderni con gli appunti che presi mentre studiavo per la tesi, che dimostravano il mio interesse nella psicologia cognitiva e computazionale.

Atto secondo: Caro Signor Accoroni, siamo lieti di informarla che il Consiglio per l'atribuzione del Grado di Appartenenza alla Società le ha conferito il Grado di Membro Laureato, con la Base per la Registrazione. La sottoscrizione è di settanta sterline annue… includiamo bollettino prestampato.Festeggiai, offrii da bere: la Base per la Registrazione è cio' che occorre per fare domanda per dottorati clinici, finiti i quali si entra nell' albo (volontario) degli psicologi clinici.

Le domande per il dottorato vanno mandate centralmente alla BPS a Leicester, che poi le smista ai corsi cui si è espressa referenza. Nel Febbraio 1996 ricevetti le risposte. L'Istituto di Psichiatria non mi volle; mi rifiuto' il corso della University College of London; rispose picche anche l'University of East London… ma il South Thames Course mi offri' un colloquio. Mi informai: 450 avevano fatto domanda per questo corso, 50 avevano avuto l'offerta per un colloquio. 18 posti…avevo buone chances… Teso come un tamburo, il 18 Marzo del '96, andai al colloquio: vestito blu scuro, capelli tagliati di fresco, e infine davanti a coloro che sarebbero poi divenuti i miei tutors, e un giorno, colleghi… Due commissioni: la prima per valutare il mio curriculum accademico, l'altra per discutere l'esperienza clinica e personale. La commissione accademica mi chiese: non siamo abituati qui, ci puo' spiegare perche' ci ha messo sei anni per finire il corso quadriennale di Psicologia ? Non sapevo che dire, se non che in Italia è normale. Poi domande sulla mia esperienza di ricerca, i miei interessi teorici, la capacità di rispettare scadenze amministrative, la disposizione a tollerare lo stress (una valanga di bugie: io che le scadenze non le incontro mai, neanche per il corso, e mi stresso a riempire un formulario…). Pensai di essermi portato meglio nel colloquio sulle mie esperienze cliniche e personali.

Mi presero.

Il corso (come dicevo, triennale), è strutturato nel modo seguente: Lunedi', Martedi' e Mercoledi': tirocinio clinico pratico. Giovedi' e Venerdi': corsi all'Università. La BPS esige come parte della formazione fondamentale almeno 52 giornate lavorative in ciascuna delle seguenti specialties: adulti, bambini e famiglie, handicappati (non so, forse ora in Italia si dice disabili… mi scuso se uso una locuzione scorretta od offensiva), e anziani. Altre due specialità sono a scelta dello studente. Nel primo anno si passano sei mesi con gli adulti, e sei con i bambini e le famiglie; nel secondo altri sei con gli handicappati, e sei con gli anziani, nel terzo, sei mesi ciascuno nelle due specialità a scelta. Le lezioni vanno di pari passo con il tirocinio clinico pratico: nel semestre del primo anno, all'esperienza clinica con gli adulti corrispondono lezioni su terapia cognitivo-comportamentale, e psicologia psicodinamica con questa popolazione, cosi' come lezioni sui problemi etici degli psicologi clinici, psicologia clinica con popolazioni etniche, testing, femminismo e psicologia clinica, e altre tematiche. L'esperienza clinica pratica avviene nel placement in una struttura del servizio sanitario nazionale riconosciuto dal corso, e tramite la supervisione di uno psicologo clinico con almeno tre anni di esperienza di lavoro post-dottorato. Lo studente segue lo psicologo clinico nel suo lavoro quotidiano, affronta alcuni casi clinici (di solito sei o sette), e riceve due ore di supervisione dallo psicologo clinico a settimana. Lo psicologo clinico deve valutare lo studente, e dargli un pass alla fine del placement, riempendo un formulario con giudizi qualitativi e quantitativi sullo studente. Ciascuno dei sei segmenti di formazione viene valutato anche attraverso prove scritte: un caso clinico di 4000 parole, che dimostri padronanza terapeutica, di formulazione e intervento, ed un essay di 5500 parole. Con l'essay viene valutata la competenza accademica – con tematiche quali la ricerca sulla depressione, Attention Deficit Hyperactivity Disorder, il lavoro teraputico con gli anziani, eccetera. Occorre inoltre completare tre progetti di ricerca per ciascuno degli anni di corso: per i primi due anni, due progetti di 4000 parole ciascuno. Per il terzo anno, la dissertation, di 20.000 parole.

Ora che sono arrivato al terzo anno, mi guardo indietro incredulo a considerare cio' che ho imparato. Ho lavorato con gente di mezz'età che soffriva di depressione ed ansia, con cui ho condotto terapia cognitivo-comportamentale nelle surgeries dei medici di base. Ho praticato terapia sistemica con bambini e famiglie in centri per la famiglia con specchi a due vie, e supervisione live con un team di psichiatri, terapeuti della famiglia e psicologi clinici. Ho condotto terapia psicodinamica con un disabile mentale che aveva stuprato una bambina; terapie cognitive e psicodinamiche con gli anziani… Ho fatto testing neuropsicologico con persone con problemi di memoria  a seguito di traumi cranici, demenza di Alzheimer, Korsakoff, rare demenze semantiche, schizofrenia… mi manca un placement finale, un essay, un caso clinico e la dissertation, e saro' parte di una piccola schiera di psicologi clinici che si laureeranno quest'anno, poco piu' di 250 a livello nazionale, che trovano un mercato del lavoro che li richiede pressantemente. Ci sono infatti piu' posti di lavoro che psicologi clinici (al punto che alcuni posti vengono offerti da psicologi del Sud Africa, America del Nord, Australia e Nuova Zelanda). A livello retributivo, gli psicologi clinici costituiscono la seconda professione piu' pagata del National Health System: solo i dottori che raggiungono il grado di primario guadagnano di piu'. Il salario di partenza di un neo dottore in psicologia clinica è in media di 22.000.sterline l'anno (con un cambio di 2.800 lire per sterlina, sarebbero 61.600.000 l'anno), che crescono con anzianità ed esperienza fino a 31.494 sterline annue, quando si raggiunge il punto piu' alto del grado A. Con il Grado B – che comporta maggior anzianità ed incarichi, ad esempio, capo-dipartimento – il salario di partenza è di circa 33.000 sterline, che aumentano fino a 54.539 quando si raggiunge il massimo del grado. Anche se il costo della vita qui è piu' alto che in Italia, c'e' di che far carriera, pubblicare, ed essere trattati come un professionista degno di rispetto da parte delle professioni collegate ed ancillari.

La posta, dicevo. Se riusciro' a laurearmi in tempo – sono un po' indietro con la tesi – io penso che lo debba in buona parte alla posta inglese. Con un francobollo di prima classe (costo 26 pence, cioe' 728 lire) qualsiasi lettera mandata in Inghilterra raggiunge la destinazione il giorno dopo. Certo, si possono fare anche raccomandate, espressi, e cosi' via. Ma la maggior parte della corrispondenza da e per il college (assai importante, a volte: ad esempio, I risultati delle prove scritte si ricevono per posta), avviene per posta ordinaria. Ci si puo' fidare della posta, come ci si fida dei mezzi di trasporto, della burocrazia, e del sistema di selezione, che è quasi esclusivamente basato sul merito. Sono prova vivente del fatto che, non conoscendo nessuno, sono stato ammesso ad uno dei corsi piu' ambiti d'Inghilterra.

Se non mi potessi fidare della posta, dovrei mandare raccomandate e spendere soldi inutili, inutili perche' non ci dovrebbe essere bisogno di spendere di piu' per un servizio già esistente, che dovrebbe soltanto funzionare bene. Se avessi dovuto ricevere e mandare qualsivoglia lettera da e per il college a forza di ricevute di ritorno e controaffrancamenti iperbolici, questo avrebbe comportato un costo per il servizio normale. In quanto sottousato, paradossalmente, invece di migliorare, peggiora. Per questo penso che la spia del funzionamento dell'Università italiana siano le poste: perche l'Univerisità è parte di altri sistemi, e sono gli altri sistemi – quello legale, sanitario, postale, dei trasporti, per non aggiungere quello giudiziario e politico – che a loro volta fanno funzionare l'Università. Sento dire in Italia che le cose cambieranno quando diverremo parte dei servizi dell' Unione Europea – c'e' chi guarda all'Europa perche' anche l'Università cambi. Io trovo queste speranze senza fondamento: l'Italia potrebbe anche aspettare il giorno dell'ammissione all'Unione Intergalattica di Star Trek, ma resterebbe il paese in cui uno studente meritevole non vince il concorso come gli spetta, perche' il sistema funziona attraverso il favore da dare ad un Sempronio – che detestiamo – ma che ci renderà il favore attraverso Caio, perche' a sua volta Caio deve a Sempronio un favore, e tutti e tre riceveremo qualcosa da un sistema che non funziona, e per questo andiamo avanti a favori. Per migliorare l'Università italiana non occorre una rivoluzione: ma un'evoluzione dei sistemi che ci sono già. L'Europa non ci darà mai quello che non abbiamo, perche' il sistema che non funziona è in noi.

Ora che ho quasi raggiunto quello che bramavo, quel vecchio sapore di fiele riemerge: queste cose me le doveva offrire il mio paese, nella mia lingua, fra la mia gente. Come l'amante di un tempo che incontriamo per il corso, ricordo i bei giorni e l'amarezza; la gioia sconfinata della laurea; le lezioni che mi ispirarono, l'orgoglio di aver seguito un professore bravo. Ma avendo fatto un cenno di saluto, continuo per la mia strada.

Devo mandare queste pagine al Prof. Marhaba. Gli arriveranno per posta ordinaria ? Di nuovo a domandarmi come si resta, quando la posta non arriva.

 

Alessandro Accoroni

Psychologist in Clinical Training

 


La Luna nel pozzo

 

Scrissi Quando la posta non arriva fra la fine del 1998 e l'inizio del 1999. Il Prof. Marhaba mi aveva chiesto un contributo per un libro che voleva scrivere; mi aveva caldamente raccomandato di raccontare le mie esperienze in Inghilterra. Si era meravigliato delle mie descrizioni del training clinico, delle responsabilità e dei salari che si potevano ottenere qui; mi aveva detto che queste cose qualcuno le doveva dire, che le avrebbe messe nel suo libro. Mi disse di scrivere una diecina di cartelle, di essere conciso (mi conosceva grafomane), e di raccontare la mia realtà.

Avevo ormai dimenticato sia il libro del caro Prof. Marhaba, sia il mio scritto Quando la Posta Non Arriva, quando, un Sabato mattina di Settembre, trillo' il telefono. "Carissimo", inconfondibilmente intono' il Professore, "sono Sadi Marhaba". Mi racconto' di questo libro che si era sviluppato, dopo che gli avevo mandato le dieci pagine di cui dicevo, attraverso il suo colloquio con altri suoi studenti che si erano laureati prima o dopo di me (diciassette mi disse, gli avevano fatto pervenire scritti molto ben elaborati); di discussioni importanti, filosoficamente approfondite, rivelatrici. Il Prof. Marhaba mi invitava ad aggiungere al mio contributo iniziale un ampliamento, che approfondisse la riflessione.

Come accennavo in Quando la posta…, il ritardo nel finire la mia tesi ha avuto un effetto negativo sul terzo anno del mio Dottorato clinico. Non mi ero reso conto quanto fosse vitale laurearsi nei tempi prescritti dal mio college. Dopo due colloqui, durante i quali i miei docenti non si sono peritati di esprimere la loro insoddisfazione, e addirittura rabbia nel constatare che non sarei riuscito a laurearmi in tempo, ho dovuto accettare alcuni cambiamenti al mio progetto di tesi di laurea. Via il mio relatore, sostituito dal Professor (titolo assai ambito qui in Inghilterra, che relativamente pochi raggiungono) che è anche il direttore del mio corso universitario. Una tabella di lavoro stringente, con chiare scadenze; il design della mia tesi modificato, e adattato ad un altro tipo di metodologia sperimentale. Il 30 Settembre 1999 finii il corso assieme ai miei colleghi, avendo completato sia i vari placements, sia superato tutte le prove scritte (dissertation a parte, la cui presentazione è posticipata al 2000). Non ero l'unico, comunque, a finire in ritardo. Altre due colleghe si trovano nella stessa posizione; poco invidiabile, perche' la pressione a laurearsi nel tempo stabilito è pressoche' intollerabile. Non posso descrivere il bombardamento continuo che abbiamo ricevuto, per tre anni, per non essere assenti alle lezioni, per non prendere le vacanze durante lo svolgimento dell'anno accademico, per presentare sempre in tempo (alle nove e mezza in punto del giorno della scadenza), in triplice copia, gli essays di 5.500 parole, le due mini-ricerche e i casi clinici, entrambi di 4.000 parole. Nei primi due anni, per ciascuna prova scritta ottenevamo quella che ad altri pareva una grazia, e per me una croce: essere seguiti da un docente. Per cui, non solo si doveva individuare fin dall'inizio del placement un caso clinico, che poi si sarebbe potuto descrivere per esteso. Prima della scadenza della presentazione del caso clinico (cioe' alla fine del placement, ogni sei mesi), dovevamo scrivere delle bozze da portare al docente, che le discuteva, suggeriva miglioramenti o tagli, o anche, a volte, consigliava di scegliere un altro caso clinico. Questo per diminuire la possibilità che, al vaglio della severissima commissione esaminatrice (formata sia dai docenti interni dell'università, sia da membri esterni della regione, e in qualche caso, anche extra-regionali), il caso clinico venisse bocciato. Infatti, se avessimo preso un "F" (fail), il caso clinico andava rifatto. Se si riceve un altro fail, si è espulsi dal corso. Ma ricevere un fail è di per se' un gran grattacapo, dopo sei mesi di lavoro. E rifarlo un incubo, essendo passati al placement successivo, (se, per esempio, il caso clinico "fallito" era quello del placement con bambini e famiglie, ci saremmo ritrovati a doverlo rifare essendo passati al placement con gli anziani). Nel frattempo, la macchina inarrestabile del college proseguiva, le lezioni susseguendosi incessanti, e altre scadenze, altri clienti, casi clinici, sere a sgobbare come dannati su articoli a volte astrusi e noiosi, con l'ansia di fallire. Ecco il motivo del docente che ci seguiva, che ci indicava pedissequamente come scrivere il caso clinico; c'era perfino un opuscolo con consigli su come farlo, quasi una formula, sottotitoli inclusi. Non ho mai ricevuto un fail sui miei casi clinici, essays o ricerche, ma ho avuto due borderline fail, che è come prendere fra il cinque ed il sei. Il voto va portato al sei; si riceve un' altra scadenza, si devono incamerare i commenti scritti, a volte grondanti di cianuro, della commissione esaminatrice.

Talvolta occorreva modificare lo scritto secondo alcuni articoli della letteratura clinica che forse non erano stati presi in dovuta considerazione. I giudizi a volte contenevano critiche centrate sulla formulazione del caso; o perfino appunti non tanto sulla grammatica e l'inglese, che fortunatamente non ho avuto, ma sulla lunghezza dei periodi ! Con pignoleria irritante, anche le referenze in bibliografia venivano passate al setaccio analitico, scoprendo punti e due punti mancanti, e mostruosità simili. Ad alcuni colleghi hanno perfino detto dove aggiungere virgole in certe parti della tesi !!!

 Non era comunque solo una questione di forma: il contenuto richiedeva sempre una lettura critica ed aggiornata della letteratura clinica, una esposizione chiara e consequenziale, e formulazioni cliniche con precisi riferimenti alla ricerca sull' efficacia della psicoterapia utilizzatata per il caso clinico. Standards accademici altissimi, miranti a produrre uno psicologio clinico capace di fare ottima pratica (rafforzata dal tirocinio nelle strutture del National Health System, o N.H.S.), conoscendo almeno un paio di sistemi terapeutici in dettaglio, fare ricerca, e mantenere un comportamento professionale del tutto ineccepibile, conforme alle aspettative dettate dal Codice di Comportamento Etico della British Psychological Society (BPS).

Il sistema universitario dei dottorati clinici è designato a scegliere con il minor fallo possibile i propri studenti, fra la marea delle applications; e seguirli poi, con il fiato sul collo, fino al prodotto finito, il Doctor in Clinical Psychology. La pressione su questo sistema, e sotto di esso, è altissima: il training per un Doctorate in Clinical Psychology costa £200.000 per studente. Duecentomila sterline, moltiplicate per le 3000 lire del cambio attuale, rende 600.000.000 milioni. Pagati dall' N.H.S. attraverso l'autorità sanitaria locale in cui il corso è situato; ma sono i soldi dello stato, dei contribuenti, spesi per le tasse di immatricolazione, lezioni, stipendi dei docenti, placements clinici, corsi vari, piu' il salario annuale dello studente, striminzito ma accettabile. Vorrei sottolineare questo: il sistema sanitario inglese finanzia i Dottorati in Psicologia Clinica, con la prospettiva di impiegare i Doctors in Clinical Psychology nel sistema sanitario stesso. In questo senso, non c'e' differenza di trattamento, sia formativo che di impiego, fra i dottori in medicina o psicologia, o gli psichiatri. In Inghilterra, la formazione degli psicologi clinici è un onere della collettività, che poi pero' riceve il beneficio delle terapie, conoscenze e ricerca di questa disciplina per il miglioramento della Salute Mentale della nazione.

In Italia, a me sembra che l'onere della formazione ricada sullo studente, che deve pagare per la specializzazione, e affrontare poi un mercato del lavoro sfittico e ingiusto. Ad esempio, è per me un'assurdità Kafkiana e insensata che un laureato in Psicologia debba fare un esame per essere ammesso all' albo degli psicologi. Se l' Università italiana ha conferito una laurea in Psicologia, indirizzo clinico, con criteri selettivi e stringenti, non dovrebbe essere necessario alcun altro esame; se sono necessari altri esami, l'Università italiana non ha conferito lauree affidabili. Se entrambe queste due proposizioni sono false, ne segue che l'iscrizione, previo esame, all' Albo (che la British Psichological Society, o BPS, conferisce semplicemente tramite domanda dell'interessato, il quale allega il nome dell' università in cui si è laureato) puo' essere vista come un mezzo per esercitare pressioni (e potere) intellettuali ed economiche sugli studenti italiani, i quali pagano il fatto che l' Università italiana non dà loro accesso alla pratica clinica, e impone loro un ingiusto tirocinio, che li tiene fuori dal mercato del lavoro per un anno intero, con nessuna retribuzione. Cosi', oltre alla beffa di una laurea in Psicologia ad indirizzo clinico (senza esperienza pratica, e pochissima ricerca) che li qualifica solo per ulteriori pagamenti e sacrifici, o lavori senza connessione alcuna con la Psicologia, hanno anche il danno del pagamento di un' aliquota per ottenere cio' che la pergamena finale, nel nome della nostra Repubblica, di per se' già dimostra.

Nonostante il fatto che non mi sono laureato in tempo, ho fatto domande di lavoro. Dopo quattro colloqui senza esito, avevo ormai perso speranza, quando, all' inizio di Novembre, ho ricevuto un' offerta. Anche se non ho la laurea finale, ho completato tutte le prove scritte e il tirocinio clinico; e questo puo' bastare. Mi hanno assunto con un salario ridotto al grado che mi compete, ma ho le stesse responsabilità che avrebbe uno psicologo con il Doctorate. Mi hanno assegnato un ufficio; posso scegliere alcuni casi clinici che mi interessano fra quelli in lista di attesa, e ho ricominciato a muovermi nell' N.H.S., questa volta non da studente in tirocinio, ma come psicologo clinico. Continuo a lavorare sulla tesi (ho un accordo con i miei managers che posso usare il Venerdi' pomeriggio per studiare, durante le ore di lavoro). E dico a me stesso che ce l'ho fatta.

Quando mi trovo di fronte persone depresse, o con ansia, o Post Traumatic Stress Disorder, e so quello che devo fare, come strutturare il mio intervento terapeutico, da chi ricevere supervisione clinica, come scrivere un report al medico di base, tutta la sofferenza di questi anni, inclusi quelli della mia laurea in Italia, sembra utile.

Perche' non c'e' dubbio che ho sofferto. Mi sono imposto di imparare questa lingua come un nativo, di perfezionarne sia l'accento che la dizione, che il vocabolario, fino al punto in cui il mio interlocutore non si renda conto (quasi) che ha a che fare con uno straniero. Per fare terapia psicologica non basta conoscere una lingua: bisogna soprattutto capire il contesto culturale che ne è alla base. Ho dovuto e voluto imparare a conoscere la mentalità inglese, leggendo i giornali, riflettendo sulle mie esperienze, ma soprattutto accettando la realtà della mia vita quotidiana come data, e non traducibile. Quando dico traducibile, intendo riferirmi a quel modo costante di fare paragoni che si compie, ad esempio,  quando si è turisti: notare le differenze, discutere le astrusità, paragonare quel che si vede a quel che si conosce. Ho imparato a capire il sistema sanitario inglese senza confrontarlo a quello italiano; senza vederlo come un modello simile o diverso dal nostro; ma solo perche' esisteva, in tutte le sue peculiarità, come se non avessi mai messo piede in una USL in vita mia. Per affondare nel modo di vivere inglese, nella loro mentalità, e per possederla internamente, come parte di me, ho da lungo smesso di pensare in italiano. Occorre troppa energia per tradurre da una lingua all' altra, si perdono momenti preziosi. A lungo andare non esiste piu' uno spazio mentale in cui due lingue diverse coesistono parallelamente: come nella massima epicurea sulla morte, quando c'e' l'inglese non c'e' l'italiano, e viceversa.

 Quando mi chiedo chi sono diventato nel corso di questi anni, attraverso la mia caparbia decisione sia di non vivere in Italia, sia di diventare uno psicologo clinico a qualunque costo, a volte mi pare di vedermi immutato. Sono ancora profondamente italiano nel modo in cui mi comporto con la gente: al lavoro mi dicono che sono affabile e charming; sono sensibile alle difficoltà altrui, generoso, io credo, e pieno di buoni sentimenti, di sprazzi di umorismo. Ma non considero piu' alcuni miei conflitti come dovuti al sistema in cui vivo. Ho cominciato a riconoscerli come problemi personali miei, con cui mi scontro. Qui c'e' il mio cozzo interiore fra le due culture: l'italiano che in me, instancabilmente critico della burocrazia, dei sistemi organizzativi, cinico e sospettoso, e la controparte inglese, che mi addita cio' che funziona, e ritorna le critica al mittente.

Per anni ho fatto studiate oceaniche prima dell' esame, e sono andato bene; anche se avevo cominciato a studiare l'esame solo poche settimane o giorni prima. è un sistema cosi' consolidato nel mio carattere, che ho fatto molta fatica ad adattarmi al sistema opposto che usano qui; lo chiamano plodding, non so tradurlo letteralmente, ma indica un procedere a velocità media e continua, come in crociera. Poco alla volta, ma tutti i giorni.

Per questo parlavo dell' essere seguiti dal docente per il caso clinico come una croce: perche' non solo c'era la scadenza del caso clinico, ma anche la scadenza per le bozze al docente. E per rientrare in tutte queste scadenze, sarei dovuto passare dalle studiate oceaniche al plodding; dagli sprazzi di intuizione genialoide, dalle letture interessanti ma collaterali, al dedicarmi alla psicologia con regolarità, con un sistema, con programmazione. Per diventare psicologo clinico in Inghilterra, avrei dovuto perdere quella parte di me che considero piu' italiana: arrangiarmi, rabberciare cose dal nulla,  stupire tutti con pensate e citazioni bellissime; e sbagliare il banale, perche' non mi interessa. Prendere il voto piu' alto in uno dei miei essays, una degnissima distinction, ma con la condizionale (come la chiamano loro), perche' non avevo presentato le referenze. Distinguermi nelle lezioni per la profondità delle mie conoscenze in psicoanalisi, in psicologia fisiologica, in psichiatria; e presentare le mie richieste di rimborso per le spese di viaggio su un modulo scaduto, come mi disse compuntamente l'efficiente segretaria del corso, da sei mesi.

Quando vivevo in Italia, queste cose di solito succedevano al contrario: io mi ero preoccupato di fare domande di iscrizione, ad esempio, all'università, del tutto perfette. Ma li' il sistema mi avrebbe dimostrato l'inutilità di quel perfezionismo, negandomi lo sportello tramite uno sciopero, un improvviso cambiamento degli orari di apertura. O, come è accaduto, sentirsi dire che quel particolare documento in effetti non serviva, ne occorreva un altro, le regole che cambiano a seconda di chi c'e' allo sportello. E allora veniva il rifugiarsi nel mio tirare a campare, che bisogno c'e' di fare le cose per bene, se il sistema tanto non funziona ? Essere piu' organizzati dell' organizzazione, in Italia, a volte significava soltanto arrabbiarsi, farsi una vita di fiele, arrivare puntualmente per il giorno dell'esame e scoprire che il docente quel giorno l'esame l'avrebbe tenuto altrove. Per iscriversi, un pezzo di carta attaccato con del nastro adesivo al portone. La carta coperta di firme già alle otto e mezzo di mattina, perche' gli altri sapevano che per qualche motivo ignoto, quel giorno l'esame si faceva in altra sede, nel pomeriggio.

O avere le mie lezioni del primo anno di Università, a Roma, in un cinema, come bestiame in un vagone merci. Adattarsi a quel sistema, che conoscevo fin da bambino, era tutt' altro che difficile: essere italiano voleva dire, dal mio punto di vista, adattarsi all' inconcepibile, accettare l'inaccettabile, eccellere nel difficile e fallire nel facile. Naturalmente, per le mie caratteristiche personali; ci sono altri che, nello stesso sistema, sono piu' organizzati, e forse vivono meglio per questo. Non ne ho conosciuti molti, comunque: poche mosche bianche che finirono l'università in tempo, che sembrano vivere in un' Italia diversa dalla mia. La mia Italia accetta il mio modo di essere; lo asseconda, ne fa la norma, mette in risalto le mie qualità creative e mi lascia esistere nei miei difetti, perche' il sistema che li circonda è anche peggio. In questo paese, il sistema funziona: immediatamente, come in un giorno di sole un cane nero in mezzo alla piazza, mi vedono tutti per come sono. Mi vedo anch'io, perche' il contrasto è nettissimo, lo sento dentro di me stridente ed acuto.

Come discussi in Quando la posta…, se imbuco una lettera oggi, con un francobollo di prima classe, arriva l'indomani. Se ho promesso a qualcuno di mandargli una lettera e mi dimentico, non posso dare la colpa alla posta: la colpa è mia. Se non mi laureo in tempo, la colpa è mia: se non capisco il sistema, anche li' in fallo sono io. Uno dei cambiamenti fondamentali che riconosco in me stesso è questo: non posso piu' imputare al sistema i miei difetti, ed entrando in quella piazza piena di sole, essendo io il cane nero, mi devo muovere con accortezza, devo fare scelte precise con giudizio, perche' sento la mia responsabilità individuale come spropositatamente maggiore.

Questo conflitto di mentalità non è sempre doloroso. A volte essere italiano in Inghilterra significa saper accettare le incongruenze e l'inefficienza del loro sistema, con filosofia e un sorriso. Recentemente, dopo l'ascesa al governo dei Labour di Tony Blair, l' N.H.S. ha ricevuto direttive ministeriali del tutto opposte a quelle che riceveva sotto i Tories. Margaret Thatcher aveva dato agli ospedali carta bianca per farsi concorrenza commerciale: ogni ospedale aveva un budget da amministrare autonomamente, e se riusciva a fare, che so, i raggi x ad un prezzo minore dell'ospedale nello stesso circondario, avrebbe ricevuto piu' pazienti dai medici di base. Costoro avevano infatti un certo budget, che spendevano con criteri chiaramente non sempre clinici, ma spesso economici. L'ospedale con i raggi x in offerta speciale poteva poi usare il guadagno ricavato per investire nelle proprie strutture, come un'impresa commerciale.

Blair ha cancellato questa mentalità commerciale: gli ospedali non si fanno piu' concorrenza, si devono aiutare l'un l'altro. Managers che fino a ieri si temevano cordialmente, facendosi spesso concorrenza sleale, oggi devono incontrarsi per discutere i loro budgets apertamente: la riforma ha riunito gli ospedali in larghe circoscrizioni. Nel campo della salute mentale ora ci sono i Mental Health Trusts. Cosi' ci ritroviamo a lavorare nelle medesime strutture ospedaliere, ma sotto un nome diverso: bisogna cambiare tutta la carta intestata, i managers corrono da un meeting all'altro come disperati, non sapendo piu' di preciso quali sviluppi ci saranno. Forse bisognerà creare un servizio  per il Post Traumatic Stress Disorder, praticamente dal nulla, all'improvviso ci sono i soldi per assumere piu' personale e dimezzare le liste di attesa; ma una volta assunto, non c'e' un compito preciso da assolvere, perche' i managers stanno scrivendo le specifiche per il servizio mentre aspetti di vederli. Gli inglesi si scusano terribilmente di queste cose, a loro piace presentare il loro servizio come efficiente, ben stabilito, informale ma funzionale. Io mi adatto con facilità al marasma, mi mostro comprensivo e flessibile.

Loro non possono immaginare che pochi giorni prima della mia sessione di tesi, la segreteria mi aveva informato che non riusciva a trovare un esame che avevo fatto un anno prima, perche' il docente non aveva usato il modulo giusto. Gli inglesi si preoccupano perche' il mio ufficio è in disordine, mi aiuteranno a ripulirlo, mi trovano affabile e accomodante. Non sanno che queste cose per me sono nulla, e alla mia anima italiana fanno tenerezza: se sapessero da cosa vengo, e quali magoni ho assorbito, solo per conquistarmi una laurea.

è difficile far capire loro come funziona il sistema delle raccomandazioni; è quasi impossibile spiegare perche' il tirocinio debba essere fatto senza retribuzione : "Ma come fate a vivere, chi vi dà i soldi ?" Rispondi che vivi con i tuoi genitori; ti guardano increduli: "Con i tuoi genitori? A venticinque anni ?" Si immaginano scenari di orrore psicopatologico, la mamma mummificata di Anthony Perkins in Psycho che dondola nella cantina, perche' qua a venticinque o trent'anni a casa con i genitori resta la minoranza un po' strana, che fa collezione di trenini.

Nel frattempo che mi abituo ad una vita senza l'Italia, mi ritrovo in uno spazio che a volte assomiglia ad un limbo: non saro' mai un inglese vero, ma non sono piu' un italiano puro. Mi sento come uno straniero quando torno in Italia e noto la bellezza del mio paese. Lo fotografo come un turista, mi incanto davanti ai palazzi e le statue, ebbro di orgoglio e felicità, improvvisamente ricordandomi storia dell' arte che avevo dimenticato. Pero' non la capisco piu' come prima: la politica mi confonde e mi sorprende, in Inghilterra l' Italia è nominata assai poco nei giornali. Quando leggo un giornale italiano a volte non capisco di che cosa parli: ci sono nomi nuovi e sigle sconcertanti, Gip, ad esempio. I riferimenti sono oscuri, mi meraviglio della morte di personaggi famosi; avendo perso il contatto con la cronaca giornaliera, sono un alieno a casa mia. Lo stesso vale per la psicologia; soprattutto per quello che riguarda le questioni tecniche della psicologia clinica, parlarne in italiano è diventata una pena, semplicemente perche' non conosco i termini corrispettivi. Cio' che ho imparato qui, e che uso giornalmente, lo conosco nel solo canale della lingua inglese.

Questo fu particolarmente evidente quando, nel corso del mio ultimo placement clinico, ebbi una cliente italiana, una ragazza di trent'anni, con problemi di depressione ed ansia. Applicavo una modalità terapeutica nota come Cognitive Analytic Therapy, sviluppata da Anthony Ryle. è un approccio strutturato, in parte cognitivo, e in parte psicodinamico, a carattere integrativo. La terapia include l'uso di alcuni concetti come reciprocal role procedure: in inglese il significato è apparente, insito nelle parole. Con la cliente davanti a me, comunque, tradurre e spiegare il concetto fu un disastro. Procedura di ruolo reciproco; no, procedura reciproca di ruolo; no, volevo dire, ruolo reciproco procedurale, maledizione, qual'e' il soggetto, qual'e' l'aggettivo, come le spiego questo pasticcio e il fatto che non mi ci raccapezzo piu'… Già fare terapia in italiano era quasi contronatura (con l'ambiente inglese che mi circondava), in piu' la cliente volle che le dessi del lei, le mie contorsioni mentali aumentavano esponenzialmente: per non darle del tu come avrei fatto normalmente se avessi parlato in inglese, per tradurre i concetti della terapia, per raccontare il tutto al mio supervisore, in inglese, senza creare malintesi…

Una parola chiave del modo in cui questa cliente si rapportava ai membri del sesso maschile, ad esempio, era "brillante": la cliente era attratta dai tipi "brillanti". La parola inglese corrispondente, comunque, non è quella che le somiglia, cioe' "brilliant", che viene usata popolarmente come un'esclamazione, come dire "ottimo", o in riferimento a persone, nel senso di "simpatico", o "bravo" in qualcosa, che so, a tennis. Il corrispettivo piu' adeguato è quello della parola "dashing". Una contorsione della mente per trovare la parola giusta, per esprimere correttamente una sottigliezza di significato che apriva una porta sulla psicologia della cliente, che altrimenti sarebbe rimasta socchiusa agli occhi del mio supervisor. Questo è il limbo in cui mi ritrovo: sospeso fra due culture, membro di entrambe eppure appartenente solo in parte a ciascuna, piu' inglese che italiano per alcuni aspetti della mia professione, e piu' italiano che inglese nel mio modo di sentire.

So, comunque, che non voglio ritornare in Italia per fare pratica clinica: ci sono troppe cose che non accetto o non capisco, e non riesco a immaginarmi felice professionalmente li'. Uno dei motivi ha a che fare con la scoperta della psicologia sistemica.

Nel primo contributo, ho descritto il motivo del cattivo funzionamento della psicologia italiana, come insito nella malfunzione delle poste. Ho parlato di sistemi che  si influenzano a vicenda. L'idea è senz'altro dovuta allo sviluppo di quella che in Inghilterra e America è nota come The Milan School of Systemic Therapy, e agli scritti di Mara Selvini-Palazzoli, Luigi Boscolo, Gianfranco Cecchin, e Giuliana Prata. Quando i miei colleghi discutevano con me il fatto che sono italiano, mi dicevano con invidia che naturalmente questo mi avvantaggiava, perche' avrei saputo tutto sulla scuola di terapia sistemica di Milano. Con vergogna ho dovuto ammettere che il piu' fecondo sviluppo italiano della terapia psicologica contemporanea era a me del tutto ignoto. Non un accenno a lezione, ne' mai sentii parlare di Mara Selvini Palazzoli in una discussione sulla psicologia. Durante il mio corso per il dottorato clinico, un intero semestre era dedicato alla psicologia sistemica, in cui la scuola di Milano ebbe, ed ha, un ruolo centrale. E ho dovuto imparare la psicologia sistemica in inglese, gli articoli dei qua riveriti fondatori di questo utilissimo strumento terapeutico tradotti dalla mia lingua.

Un recente ed influente contributo di Boscolo e Bertrando, Systemic Therapy with Individuals, pubblicato dalla collana della Carnac (che è specializzata in psicologia dinamica e sistemica), è elogiato dai piu' noti esponenti della psicologia sistemica di qui, e si sta guadagnando fama nei circoli di psicologia inglesi.

Mi chiedo: com'e' possibile che la scuola di Milano avesse successo internazionale e fama mondiale quando mi stavo laureando in psicologia in Italia, e non sentire neanche un riferimento ad essa ? Erano profeti in patria, senza orecchie che li ascoltassero, perche' introducevano un sistema terapeutico cosi' lontano dall' egemonia psicodinamica o cognitivo-comportamentale, che risultava ingombro ? Non so capire il motivo di questa anomalia, ma vedo questo paradosso  come il simbolo delle cose migliori e peggiori dell' Italia.

Sono stato al matrimonio del mio migliore amico, pochi giorni fa, a Roma. Ho incontrato una ragazza che lavora come psicologa. Ci siamo inverforati in una discussione in cui confrontavamo i due sistemi, e le sue difficoltà a trovare lavoro: mi disse che c'erano otto posti in un certo ospedale cui lei fece domanda, "ma sappiamo tutti che quei posti erano già stati lottizzati, e andavano ai protetti dei maggiori partiti politici". Abbiamo riso di questa baggianata della "Seconda Repubblica", che avrebbe portato, a detta di alcuni, a chissà quali straordinari sovvolgimenti sociali.

Io non ho mai capito che senso abbia parlare di una seconda repubblica: letteralmente è un errore logico, perche' si potrebbe parlare di una seconda repubblica solo se ci fosse stato, istituzionalmente, uno strappo nella prima. Un periodo di soluzione, con una dittatura, un' anarchia, l'abolizione della costituzione, un golpe, eccetera. La soluzione non ci fu; la costituzione rimane.

La seconda repubblica è un'invenzione della stampa, per significare il netto dissociarsi del "nuovo" sistema politico dal precedente. Se pero' i posti di lavoro sono ancora lottizzati com'erano prima, io non vedo differenza alcuna fra le due repubbliche. Nella seconda repubblica, il raccomandato vincerebbe il concorso al posto mio, come lo avrebbe vinto nella prima.

Ho sviluppato una passione smisurata per i libri di Leonardo Sciascia. Il suo italiano lo capisco benissimo, è chiaro come la luce del sole. Ne Il giorno della civetta [1], Sciascia fa dire ad uno dei suoi personaggi: "La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giu' non c'e' piu' ne' sole ne' luna, c'e' la verità". Nel pozzo dei miei ricordi della psicologia in Italia ci sono ricordi romantici, e tanta nostalgia. Ma quando rientro in quel pozzo, ritrovo le stesse verità di prima. La raccomandazione, la lottizzazione, vecchi docenti intoccabili e inamovibili, geni incompresi, mediocrità e pochi mezzi per fare ricerca, e studenti che credono alla psicologia e lottano per praticarla, in un sistema che non funziona, un sistema cui non voglio piu' tornare. La verità nel fondo del pozzo è che ho raggiunto quello che volevo, e non sono in Italia: e brucia se ci penso, come ho già detto. Ma non ci penso, perche' questa verità fa male.

 

Alex Accoroni

Clinical Psychologist

 

Primavera 2004

 

Postilla: scrissi questi due pezzi, come avrete intuito, nel 1998 e tardo 1999, prima che l'Euro entrasse in vigore. Ma presumo che con la vostra abitudine a questa nuova moneta, il cambio dalla lira in euro vi risulterà facile…

Non ho alcun motivo di credere che la situazione dei miei colleghi italiani sia migliorata in alcun modo, a dispetto dei vari cambiamenti occorsi sotto il presente governo. Anzi, alcuni si sono trovati senza lavoro, a causa della recente privatizzazione di molte strutture un tempo pubbliche.

 

Dr. Alex Accoroni

Chartered Clinical Psychologist


[1] Adelphi, 1993.

 


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